(IN) ATTUALITÀ DI ADORNO – 03/02/2023

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POLITICHE DELLA CITTA’ – 28/10/2021

Chi fosse interessato alla lettura del libro, lo può trovare presso la Libreria Einaudi (via Pace 16/A) e presso la Nuova Libreria Rinascita (via della Posta 7).

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  Là fuori 2: peregrinazioni riflessive sulla città–bene comune.

            Tra fine XX e inizio XXI la società politica italiana è stata solcata da una rottura. La continuità che si era protratta, per il 70% (vedi DC + PCI) dal secondo dopoguerra, si è spezzata (I. Diamanti, “La Repubblica”, 11 ottobre 2021). Si è verificata una “erosione del voto fedele”, rimpiazzato dal “voto liquido, ispirato dal ri-sentimento piuttosto che dal sentimento politico, dal distacco piuttosto che dall’appartenenza, dalla sfiducia più che dalla fiducia”.

            Insomma, il tessuto civile del territorio sembra aver perduto “le sue radici e le sue ragioni”; in esso “è diventato sempre più difficile rivolgersi ai cittadini”. Questi, non ascoltati, hanno finito per essere catturati dalle sirene mediatiche contro la “casta” e, bisognosi di salvezza e di speranza, sono alla ricerca di approdi sicuri presso i leader di turno. Ma quelli che si presentano come tali si rivelano ben presto veicoli rovinosi, “macchine di promesse infrante” (Arjun Appadurai e Neta Alexander, Fallimento, 2019). Strumenti di volta in volta di sottile violenza simbolica, camuffati da reiterati imperativi performativi che “risemantizzano come virtù il fallimento”, e l’elogio ingannevole del rischio e dell’incertezza quale ethos dell’ “uomo flessibile” (R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del capitalismo nella vita personale, 1999).

            Tale contesto ci spinge ad esplorare nuove possibilità, a continue peregrinazioni riflessive sul rapporto cittadini/popolo e istituzioni/cura del bene comune. La presentazione – e la lettura, auspicabile – del nostro volume Politiche della città. Rigenerare, abitare, convivere, si offre come snodo per rilanciare le analisi critico-ricostruttive ivi contenute, arricchendole con un dibattito pubblico sul come democratizzare il diritto alla città, sul formare un popolo dal basso, sulla necessità di prendersi cura della convivenza democratica.

            Non è tempo, comunque, per sostare su ciò che non siamo riusciti a conoscere, su ciò che non siamo riusciti a mettere a valore etico-civile. Siamo chiamati, per resistere alle conseguenze perniciose preterintenzionali degli osannati “legami deboli” che attraversano le nostre vite, ad uno sforzo impervio, capace di instaurare “legami forti”: fiducia, lealtà, fedeltà, servizio, resistenza attiva e vigilanza critica nei confronti della città. Ci può soccorrere quello che il poeta inglese John Keats, all’inizio del XIX secolo, chiamava capacità negativa (negative capability), consapevole che “il reale non è ciò che è”. Quella capacità interviene come risorsa del soggetto “quando un uomo è capace di essere nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio, senza l’impazienza di correre dietro a fatti e a motivi certi”.

            Ne può nascere “un agire che per così dire nasce dal vuoto, dalla perdita di senso e di ordine, ma che è orientato all’attivazione di contesti e alla generazione di mondi possibili” (G. F. Lanzara, Capacità negativa. Competenza progettuale e modelli di intervento nelle organizzazioni, 1993). In altri termini, si tratta di farsi “portatori di speranza” (Hoffnungsträger), come affermava spesso Alexander Langer (vedi ad esempio La scelta della convivenza, 1995), in un mondo dominato dall’agire calcolativo che addita come percorso da perseguire la traduzione della sua “macchina di promesse infrante” in virtù civile.

            Si tratta quindi di prendersi cura delle istituzioni democratiche mettendole in movimento (R. Esposito, Istituzione, 2021). È ciò che, nella sua genesi, richiede la sostanza stessa di ogni persona: “Poiché sono initium, nuovi venuti e iniziatori grazie alla nascita, gli uomini prendono l’iniziativa, sono pronti all’azione” (H. Arendt, Vita activa).

Pietro Zanelli

 15 ottobre 2021

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SOGLIE RIFLESSIVE – NATALE 2020

Cari amici, ho esitato a lungo nel prendere la parola e augurare a ciascuno di voi BUON NATALE! Mi sono poi deciso, anche se in ritardo, incoraggiato da alcune pagine di due filosofi, una ebrea apolide, Hanna Arendt, e un cristiano non cattolico, Paul Ricoeur, che ha detto di sé “Il filosofo, che io sono, anima l’apprendista teologo, che si agita in me”, parole indicative alla base della sua militanza socialista giovanile mai dimenticata, anche se le lunghe deviazioni delle opere successive sembrano talora renderla inattiva. Ambedue hanno riflettuto a fondo sul nesso perdono-promessa. Mi limiterò, comunque, a trascrivere un solo passo della Arendt, tratto dalla sua opera Vita activa. La condizione umana (1958) (v. allegato). E’ un brano su cui richiama l’attenzione quarant’anni dopo Paul Ricoeur nell’ Epilogo della sua grande opera La memoria, la storia, l’oblìo (2000).Buon Natale e Felice Anno Nuovo (nonostante tutto).

Pietro Zanelli

PICCOLE COSTELLAZIONI DI SENSO PER UN NATALE IN TEMPO DI SOCIALITA’ RISTRETTA

Premessa

         Che fare, cosa pensare in questo nostro tempo di socialità ferita? In questo nostro tempo fuori di sesto, con alle spalle – ma sembra, purtroppo, anche davanti! – un anno orribile, che senso può avere il Natale? Con esso si può intendere il periodo di “dodici giorni che vanno dal 24 dicembre al 6 gennaio. Essi sono quel che resta degli antichi riti del solstizio d’inverno, quando le giornate ricominciano ad allungarsi (…). Il cristianesimo trasforma il trionfo della luce sull’oscurità in una celebrazione del suo sole infante, nella Natività del Dio bambino, che viene al mondo in una grotta per liberare l’umanità dalla tenebra del peccato originale” (Marino Niola, Il rito rubato del Natale “senza”, “La Repubblica”, 24/12/2020).

         Cosa accade se al contatto dei corpi e delle anime si sostituisce la paura del contagio? E se il più diffuso rito, religioso e laico, di rigenerazione della socialità, costituito dal Natale, viene, per così dire, sospeso o, comunque, ristretto, rispetto al plurale vivere insieme intersoggettivo che caratterizza l’anello intermedio tra il privato degli affetti e lo spirito pubblico delle istituzioni democratiche repubblicane?

         Ha ancora un senso augurare “Buon Natale!” se le sue potenzialità di futuro, che, di per sé, tendono a sopperire alla fragilità delle stesse istituzioni, vengono ferite?

Principio natalità

         “Senza azione e discorso, senza l’intervento della natalità, saremmo condannati a muoverci per sempre nel ciclo ricorrente del divenire (…). È la facoltà dell’azione che interferisce con questa legge (…). Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare. L’azione è in effetti l’unica facoltà dell’uomo capace di operare miracoli, come Gesù di Nazareth (…). Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, ‘naturale’ rovina, è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire. È, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza (…). È questa fede e questa speranza che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: ‘Un bambino è nato tra noi’” (H. Arendt, Vita activa. La condizione umana).

Slegare l’avvenire?

         Il contesto comune ai due pensatori, Arendt e Ricoeur, è dato dalla dialettica ‘perdono-promessa’, rispettivamente lo slegare e il legare. Slegare il soggetto dalle sue défaillances passate (se riconosciute), legarsi nel futuro del vivere insieme, del “tendere alla vita buona, con e per l’altro, all’interno di istituzioni giuste” (P. Ricoeur, Sé come un altro). Il ‘legare-slegare’ si profila in quattro tempi: “legare il passato (memoria), slegare il passato (perdono), legare l’avvenire (promessa), slegare l’avvenire (rimessa in questione)” (P. Ricoeur, La storia, la memoria, l’oblìo).

         L’agire etico-politico ne è il mediatore, in quanto fondato sul principio natalità, radice ontologica di ogni inizio e ricominciamento, “senza ringhiere” (Arendt), senza garanzie di continuità, esposti alla fragilità del nostro operare in “costellazioni di senso” ogni volta nuove, caratterizzate sempre e di nuovo, da incompiutezza (Ricoeur), che richiede una grammatica dell’ottativo: l’auspicio della tensione utopica che sospinge, ancora e sempre, verso nuovi inizi, in una moralità vivente.

Buona(e) lettura(e)!

  • H. Arendt, Vita activa. La condizione umana, Bompiani
  • P. Ricoeur, La critica e la convinzione, Jaca Book
  • D. Iervolino, Introduzione a Ricoeur, Morcelliana
  • J. Kristeva, Hanna Arendt. La vita, le parole, Donzelli

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SOGLIE RIFLESSIVE: CONNESSIONI D’ACCECAMENTO, CONNESSIONI GENERATIVE

CONTAGIO E CATASTROFE

In fondo potrebbe essere un modo per cercare di osservare attentamente “l’opacità del presente vissuto” (Ernst Bloch) in cui ci troviamo, quello della “assoluta caducità” di cui parla Theodor W. Adorno nella XVII lezione di Metafisica, il cui tema ruota attorno al morire. Da una parte il rischio di essere “contagiati da una malattia e non si sa proprio come sia successo” (ivi) – ma l’OMS già due anni fa aveva lanciato un allarme di possibili epidemie-pandemie; dall’altra lo scoprirsi indifesi di fronte ad una possibile catastrofe del nostro sistema sanitario – ma non ci si ricorda che nell’ultimo ventennio ci sono stati tagli di spesa, sulla sanità, tra i trenta e i quaranta miliardi, risucchiati dalle varie finanziarie, anno per anno, subiti senza resistenza alcuna, giustificati (?) da un tardo tatcherismo (“non c’è alternativa”, con il corollario “la società non esiste”, cui ha fatto da eco, pochi giorni fa, C. Lagarde con il suo ‘la banca europea non è per i cittadini europei’) . Dal decennio di crisi globale da cui proveniamo, non ancora assorbita – anche qui ci siamo scordati dell’analisi di Gramsci del capitalismo come “continua crisi” (Quaderni del carcere) e di quella di Walter Benjamin del “capitalismo come religione” (1921) – transitiamo verso una probabile carneficina sociale al di là di ogni immaginazione, catastrofica, appunto.

INTERROGATIVI E MONITI

È doveroso allora cercare di rialzare la testa. Si pongono degli interrogativi: come reagire nell’improvviso irrompere di qualcosa di oscuro che non si riesce a controllare (il contagio da coronavirus)? Come ci si può preparare ad un futuro che si preannuncia catastrofico? Ancora, e più da vicino, “perché tanti morti in Lombardia”? (Piero Bevilacqua, Ambiente e pandemia. Il drammatico connubio della Pianura Padana, 20 marzo 2020). Ma, più in generale, in quell’ “immenso deposito di fatiche”, la Pianura Padana, come appariva a Carlo Cattaneo a metà Ottocento. Giornalisti, esperti, politici, industriali, noi semplici cittadini, sembriamo tutti vittime di un analfabetismo ecologico. Dove eravamo quando già negli anni Novanta riviste specializzate gettavano l’allarme sulla Lombardia come la regione più inquinata d’Europa, con stato di polmoni diffusamente compromessi? Nel territorio bresciano circa 300 fabbriche erano classificate a rischio A secondo la cosiddetta Legge Seveso. Un caso per tutti, la faccenda Caffaro. Si veda il saggio L’aria che respiriamo. Una questione politica sulla rivista dell’Università Cattolica “Vita e pensiero” (n. 1/2008). Più recentemente si veda il sito infoData, Il Sole 24 ore, relativo alle morti da influenza in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto e Piemonte, di gran lunga più numerose rispetto al resto d’Italia. Come un’eco da lontano, il monito di Walter Benjamin: “Le rughe e le grinze sul nostro volto sono il biglietto da visita delle grandi passioni, dei vizi, delle conoscenze che passarono da noi – ma noi, i padroni di casa, non c’eravamo” (Per un ritratto di Proust, 1929).

Sono, queste considerazioni, frutto di un eccesso di radicalismo? Quell’ ‘ebreuccio tedesco di cui non ci si ricorda ormai quasi nemmeno il nome’ (da Il Gattopardo) ci aveva messo sull’avviso quasi due secoli fa: “Essere radicale significa cogliere le cose alle radici. Ma la radice dell’uomo è l’uomo stesso” (1843). Ed Ernst Bloch, l’autore de Il principio speranza (una mappa della coscienza utopica, in gestazione dalla metà degli anni Trenta e portato a compimento negli anni Cinquanta del secolo XX) aggiunge: “La radice dell’uomo è l’uomo che lavora”, nel suo “camminare eretto” con andamento pieno di dignità e di lotta, eredità del secolo dei Lumi: diritto naturale, illuminismo, Rivoluzione francese.

Purtroppo stanno arrivando i tempi della resa dei conti di una “spoliticizzazione egemonica eretta a prassi politica che pesca senza vergogna nel lessico di libertà, liberalismo, liberalizzazione, deregolamentazione, e tende ad assegnare un potere fatale ai determinismi economici, liberandoli da ogni controllo, e tendenti a sottomettere governi e cittadini alle forze economiche e sociali così liberate” (Pierre Bourdieu, Controfuochi. Per un nuovo movimento europeo, 2001).

CONTINUA A LEGGERE IL PDF:    Soglie riflessive – 21 marzo 2020

Pietro Zanelli

Brescia, 21 marzo 2020

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